Tecnica difensiva individuale

5 aprile 2011

A 14 anni sono entrato nelle giovanili del Brescia, dopo avere giocato nella squadra dell’oratorio sia a 7 che a 11, con il ruolo di terzino MARCATORE  sinistro. Avevo un fisico normale ma con due gambe possenti e polpacci da sprinter. Non tanto alto(1,77), ma per quel ruolo non era importante visto che le ali erano punte veloci e dribblomani ma non grandi colpitori di testa. Il sistema  di gioco era uno solo, il 4-3-3 ma non come è interpretato oggi . Tutte le  squadre avevano 4 difensori puri, uno dei due centrali, più tecnico, faceva il libero staccato, l’altro, più difensore e forte di testa, lo stopper. I due terzini erano rapidi, veloci e aggressivi, non necessariamente bravi tecnicamente. Tre c.c. di cui il centrale regista puro, bravo tecnicamente, grande personalità e visione del gioco ma senza compiti difensivi, a quello ci pensavano i due c.c. laterali, di cui uno poteva essere più offensivo dell’altro, ma sempre, come prima prerogativa, doveva avere capacità tattica difensiva . Le tre punte erano formate da due ali(il mancino a sx e il dx a destra)veloci e rapide con dribbling fantasioso e cross di precisione, mentre il centravanti era forte fisicamente, forte di testa, tiro potente e bravo a fare la sponda. Come potete intuire le partite erano imperniate su duelli continui perché ognuno manteneva la propria zona e aveva in contrapposizione il diretto avversario  in quella zona. Solo il libero doveva spaziare sulla larghezza del campo per aiutare il compagno in difficoltà. E’chiaro che si facevano anche, sia le diagonali che le scalature nei momenti di grande difficoltà ma, in generale, si assisteva a continui duelli fra gli opposti nel ruolo. Quindi, già da ragazzino, se avevi caratteristiche tecniche da difensore, dopo un breve riscaldamento con tecnica individuale uguale per tutti,  venivi preso dall’allenatore che ti insegnava tutti i principi basilari della fase difensiva. Nella parte espressamente della tecnica fondamentale c’erano il colpo di testa e il contrasto. Per il primo le fasi erano due, inizialmente la FORCA(palo con carrucola e corda a cui era attaccato il pallone, che quindi poteva essere alzato o abbassato conforme alle esigenze e all’altezza del giocatore) e poi  a corpo libero con un compagno davanti (fermo, senza contrastare) e l’allenatore che ti faceva fare tutte le simulazioni sia per il colpo di testa che per l’anticipo. Per il secondo, ci mettevamo a coppie e ci venivano insegnate tutte le tecniche del contrasto. Poi andavamo in campo schierati e, iniziando da uno dei terzini per poi arrivare all’altro attraverso i due centrali, ruolo per ruolo, ti allenavi sulla posizione del corpo in riferimento alla porta, all’avversario e infine ALLA PALLA. Ho scritto in maiuscolo palla, perché penso che l’errore più grave che viene fatto dai difensori oggi, soprattutto in area, sia quello di guardare la palla e non l’avversario, sempre in riferimento alla porta naturalmente. LA PORTA, quello deve essere il primo punto di riferimento. Se io sto  difendendo il primo pensiero deve essere quello di DIFENDERE dove si prende il gol, il secondo CHI LO FA IL GOL e, per ultimo, l’ oggetto che fa realizzare la rete. Quindi non può essere la PALLA la mia prima preoccupazione ma LA PORTA E POI L’AVVERSARIO. La posizione del mio corpo deve essere sempre fra l’una e l’altro pronto a anticipare ma in una posizione intermedia per non essere scavalcato. Determinante è la POSTURA e cioè il corpo deve essere pronto sia per saltare che per contrastare, quindi leggermente curvo, le braccia leggermente piegate e aperte per l’equilibrio e per difendersi dall’avversario ma, soprattutto, il compasso delle gambe largo quanto i fianchi per essere pronto a qualsiasi sollecitazione di scatto, di contrasto o di esplosività per lo stacco (uso dire con IL COMPASSO STRETTO per rendere meglio l’idea). Il mantenimento del COMPASSO STRETTO, comunque, serve per tutti  i gesti tecnici individuali, perché se hai il difetto di allargarlo, pensando di arrivare prima, fai un errore gravissimo in qualsiasi situazione e in qualsiasi ruolo, anche perché ti trovi in una posizione di equilibrio precario. Tutto questo diventa determinante per il CONTRASTO. Se io chiedo ad un giocatore quale deve essere il suo obiettivo primario nel contrasto sapete cosa risponde?…..PORTARE VIA LA PALLA. E invece sapete cosa voglio io? CHE L’AVVERSARIO NON PASSI ! Quindi non mi interessa molto che riesca a conquistare la palla ma, che l’avversario non mi scavalchi. Quindi il contrasto lo devo fare sempre con il mio corpo di fronte al suo, bene fermo con tutto il peso sull’arto che contrasta. Ecco perché il contrasto scivolato lo voglio solo se si è sicuri di prendere la palla altrimenti non ha importanza se la prende l’avversario. Altro principio fondamentale  è che DEVO SCIEGLIERE IL MALE MINORE e non il rischio. Sto chiaramente parlando di situazioni che avvengono, dalla nostra metà campo alla nostra porta. Ho l’impressione che tutto questo non sia più alla base dell’insegnamento moderno, considerando i gol che si vedono in tutto il calcio Europeo. Spero di essere stato abbastanza chiaro, consapevole che la materia è molto più ampia ma può essere l’inizio di un dibattito specifico e di interesse comune visto che non se ne parla mai a livello mediatico.

Gigi Cagni


30 anni ad inseguire un pallone

28 marzo 2011

In questo ultimo periodo ci sono molte persone, ventenni ma anche quarantenni,  che mi chiedono:  ”Come erano gli anni sessanta e settanta ?” Poi Marco mi ha chiesto di parlare del periodo della Sambenedettese.  Immediatamente mi sono passati nella mente 30 anni della mia vita.

Non preoccupatevi ,  non ve li racconterò tutti ma solo alcuni pezzi  importanti e significativi.  Non ho fatto mai un compito scolastico a casa nella mia vita, non ero tagliato per lo studio, e poi si è visto..(non fatelo, a quei tempi era possibile perché anche le condizioni erano diverse, e riuscire nella vita era comunque possibile perché c’era tutto da costruire e le opportunità erano molte) perché in prima ragioneria non avevo la sufficienza nemmeno in condotta. L’unica passione era il pallone. Sempre a giocare, nei vicoli del centro storico o all’oratorio.

A 14 anni sono andato a lavorare (da quell’età fino ai 17 ne ho cambiati di lavori per poi finire in fabbrica) ma, nello stesso periodo, ero stato preso nel settore giovanile del Brescia. Alla domenica  sveglia presto e a VEDERE la partita, perché c’era solo il DODICESIMO in panchina e quindi, o eri titolare o andavi in tribuna. Ero il più giovane della Juniores e quindi ho fatto un anno intero, solo ad allenarmi, e soffrire, ma  ad imparare tanto (gli allenatori erano MAESTRI e i nostri genitori non interferivano mai nelle loro decisioni).

Qualche pomeriggio, lavorando, non potevo partecipare agli allenamenti,  ed uno di questi maestri (Gigi  Messora) che credeva in me,  veniva appositamente alla sera nell’oratorio del mio quartiere ad allenarmi.

A 15 anni diventai titolare e feci tutta  la trafila fino alla primavera (nel frattempo i giocatori in lista passarono a 13, poi 14, fino ai 18 di oggi). Guadagnavo bene a fare l’operaio e la mia famiglia ne aveva bisogno, ma un giorno mi si prospettò di fare il professionista, la decisione comportava, però, il dover consegnare le dimissioni al lavoro. L’istinto e la passione vinsero sull’arrabbiatura di mia madre, che voleva il posto sicuro. Iniziai la mia carriera calcistica.

Giocare per  14 anni con la maglia della squadra della mia città è stata una delle emozioni più belle della mia vita. Se poi penso che, nei primi anni settanta ci fu un periodo in cui 7/11 erano bresciani e in campo si parlava dialetto, mi viene la pelle d’oca.

Ma le favole nella vita non esistono.

A 28 anni discopatia S1-L5, problemi alle gambe per infiammazione dello sciatico,il medico disse in società che ero finito (a quei tempi l’età media di durata dell’attività era 31 anni, un po’di più per chi giocava libero, e  le conoscenze terapeutiche erano limitate all’operazione chirurgica).  Il proprietario del cartellino era la società e quindi a novembre del 78 venni VENDUTO alla Sambenedettese, senza poter rifiutare anche perché un dirigente mi disse:  ”Se non vai ti faccio smettere”.

Avevo fatto i primi due anni da professionista firmando il contratto in bianco: era troppa la gioia di portare quella maglia. Avevo fatto gare con la febbre o con infiltrazioni anti dolorifiche perché “AVEVANO BISOGNO DI ME”.  Quello era il ringraziamento.

La rabbia e l’orgoglio mi fecero da sprone per pensare che avrei smentito la loro sfiducia e previsione.

San Benedetto del Tronto: non sapevo nemmeno dove fosse, pensavo di andare al SUD.  Lì ho poi vissuto altri 9 anni fra i più belli della mia vita. Lo stadio era vicino al mare, piccolo e raccolto, niente pista e le linee erano al limite delle misure regolamentari di distanza dai muri degli spalti. Il tifo calorosissimo e assordante.

Nelle partite importanti e, soprattutto, nel derby con l’Ascoli, pieno all’inverosimile.  Era un grosso vantaggio giocare in casa. Sono sempre stato un giocatore di grinta e agonismo, lì ho portato all’ennesima potenza la mia carica e, dopo i primi anni, sono diventato il capitano e l’emblema di quella squadra fino all’87 quando tornai a casa. I primi due anni non sono stati facilissimi perché nel primo ci siamo salvati alla fine e nel secondo siamo retrocessi. Avrebbe potuto essere la fine di tutto e invece fu l’inizio, per me, di una nuova vita.

A 30 anni in C1 a San Benedetto non aveva senso. Come ho detto all’inizio, giocando terzino sx, non avrei avuto ancora molti anni di carriera davanti a me e quindi la C1 mi conveniva farla vicino a casa e prepararmi il futuro. Come dico sempre” la fortuna passa per tutti”, la bravura sta nell’essere pronti a coglierla. Dico questo perché quando andai in sede per ritirare gli assegni (come sempre posdatati ottobre-novembre-dicembre) degli ultimi tre mesi di stipendio, ebbi la FORTUNA di avere un colloquio con Nedo Sonetti, futuro allenatore della della Samb. Mi chiamò nel suo ufficio e mi propose di rimanere perché riteneva fossi l’uomo giusto, per esperienza e carisma, come guida di una squadra che doveva vincere il campionato e tornare in B immediatamente.  Usò tutti i mezzi di persuasione ma senza risultato finchè, mentre stavo per  uscire dall’ufficio, disse la frase più geniale e convincente si potesse dire in quel momento: “E se giocassi LIBERO?”. Rimasi fulminato, mi si accese la lampadina e mi passarono davanti tutti gli anni futuri in quel ruolo. Mi fermai, mi girai e dissi “PARLIAMONE”. Iniziò per me una nuova carriera calcistica piena di soddisfazioni che mi forgiò, soprattutto, come uomo. Iniziò, anche, la mia nuova  mansione calcistica e cioè quella di ALLENATORE in campo.  Sette  anni splendidi, pieni di soddisfazioni (vincemmo subito il campionato di C1 ,tornammo in B e ci rimanemmo finché non venni via nell’87)ed esperienze da leader che mi sono servite per intraprendere, con più sicurezza ,quello che sarebbe poi diventato il mio lavoro di allenatore. Oggi capisco anche il perché ogni Mister che veniva alla Sambenedettese , pretendeva la mia riconferma, anche quando avevo 36 anni. Troppo importante avere il leader e l’allenatore in campo. Oltre a quello ho fatto LA CHIOCCIA  a decine di giovani giocatori. Il loro complimento più grande è stato, rivisti in seguito a carriere brillanti,che li avevo aiutati a crescere più come UOMINI che calciatori. L’ambiente era ideale perché molto familiare e ristretto, ma con pressioni costanti e grande passione da parte dei tifosi. L’importante era dimostrare il proprio attaccamento alla squadra e alla maglia, si doveva uscire dal campo avendo dato tutto. Se avevi fatto questo nessuno ti rimproverava niente. Niente personalismi, la maglia e i tifosi andavano rispettati con il tuo comportamento in campo e cioè carica agonistica e grinta per i colori ROSSO-BLU. Questi principi varrebbero ancora oggi ma il SISTEMA è così cambiato che è molto difficile trovare sia i leaders che le BANDIERE. Una cosa è certa, io mi reputo fortunato per avere vissuto in un periodo così pieno di avvenimenti ed esperienze che mi hanno fatto crescere giorno dopo giorno senza rimpianti e, soprattutto, senza mai essermi mai ANNOIATO.

Gigi Cagni


Il management

23 novembre 2009

Sul finire della mia carriera di giocatore cominciai a prendere appunti e spunti da tutti gli allenatori, miei e di altre squadre, in grado di trasmettermi  insegnamenti che ritenevo mi sarebbero serviti  una volta diventato un loro collega. Li seguivo in tutto, da ciò che trasmettevano a livello mediatico al loro comportamento nel dirigere la squadra sul campo. Mi piaceva pensare e confrontare tutto quello che vedevo fatto da altri e riviverlo in prima persona, simulando mentalmente quali sarebbero potuti essere i miei comportamenti nella stessa situazione. La cosa che dovevo decidere come obiettivo primario era senz’altro il sistema di gioco e, come ho già detto in un’altra occasione, sapevo che se avessi avuto i giocatori adatti sicuramente avrei giocato con il 4-3-3. Devo anche precisare che occorre avere elasticità mentale per valutare le qualità dei giocatori messi a disposizione dalla società, prima di decidere il sistema di gioco più adatto da fare applicare. Fortunatamente avevo giocato quasi tutti i sistemi o comunque li avevo affrontati sul campo da avversario. Con orgoglio posso dire di avere giocato in due società soltanto(9 anni nel Brescia e 9 nella Sambenedettese), esserne stato il capitano e leader, perciò nel mio DNA calcistico avevo la mentalità aziendalista e la conoscenza dell’importanza di costruire un gruppo di giocatori compatto per il raggiungimento di un obbiettivo comune .Tutto questo ha fatto sì che, intrapresa la carriera di allenatore, il mio obbiettivo primario fosse sempre quello di applicare tutte queste mie esperienze con la convinzione che solo così avrei potuto raggiungere risultati importanti. Oggi, dopo 20 anni di carriera da allenatore, dove ho avuto la fortuna di vivere tutte le situazioni tattiche, in circostanze positive e negative di ogni tipo, posso affrontare ogni problema che mi si presenti con la competenza necessaria per trovarne la soluzione. Consapevole che c’è stata un’evoluzione nel ruolo dell’ allenatore, non solamente tattica ma soprattutto di un contesto economico sociale diverso e che quindi,  è necessario adeguare anche il proprio modo di interpretare questo ruolo. La mia convinzione è che, nel contesto attuale , sono pochi gli allenatori che possono costruire la squadra con i propri principi tattici ma al contrario devono essere sempre più bravi a fare rendere al meglio il materiale che gli viene messo a disposizione. Ecco perché è determinante sapere come insegnare tutti i sistemi di gioco ma soprattutto trovare la soluzione più adatta alle esigenze della società che ti ingaggia. Penso che ci stiamo avvicinando sempre più all’allenatore manager che, sia in base ai progetti economici che a quelli riguardanti i traguardi da raggiungere sul campo, sappia come soddisfare queste esigenze. In questo nuovo contesto, comunque, sono sempre più convinto che certi VALORI non debbano mai mancare per ottenere risultati importanti.

Gigi Cagni


Il mio modulo preferito

14 novembre 2009

Nel 1986 alla Sambenedettese arrivò come allenatore Giampiero Vitali (purtroppo morto qualche anno fa), lo conoscevo bene perché ero stato suo compagno di squadra nel ‘67 nel Brescia quando io, giocando nella primavera, partecipavo con la prima squadra alle partite amichevoli ed ero la sua riserva diretta essendo terzino sinistro come lui. Per questo a San Benedetto instaurammo immediatamente un ottimo rapporto di collaborazione sia in campo (ero il più vecchio e capitano) che nello spogliatoio. Mi piace ricordare che a quei tempi e in quel tipo di realtà succedeva spesso che tutti, compreso l’allenatore, si andasse a cena con le famiglie o che ci si ritrovasse sullo splendido lungomare a passeggiare, oppure a palleggiare in spiaggia. Queste divagazioni mi piacciono perché comunque, questi comportamenti influivano positivamente anche sul rendimento della squadra sul campo. Quell’anno fu per me determinante per quanto riguarda quello che avrei poi fatto come scelta tattica all’inizio della mia carriera da allenatore.
Quando per la prima volta giocai il 4-3-3, fu amore a prima vista, mai mi ero sentito così sicuro. Queste sensazioni si possono comprendere solo se si ha giocato a calcio e soprattutto da liberi, con delle responsabilità che vanno oltre a ciò che succede sul terreno di gioco.

bizona_5-5-5
 Per capire meglio quello che intendo bisogna immedesimarsi nel ruolo e pensare alla visuale che si ha davanti. La cosa peggiore, e quella che mette più apprensione, è quando si vedono degli spazi vuoti in mezzo al campo, e si ha immediatamente una sensazione di ansia perché non si capisce da dove può venire il pericolo, quando, invece, è determinante nella fase difensiva intuirne l’origine, ma soprattutto la finalizzazione per anticipare con l’intervento più utile l’azione dell’avversario. In questo sono determinanti il centromediano metodista e le due ali, cioè coloro che hanno il compito in tutte e due le fasi di mantenere gli equilibri. Non si pensi che io abbia poi scelto questo metodo perché ci si difende bene, infatti in realtà, anche la fase offensiva è altrettanto proficua, sempre mantenendo tutto il campo coperto e riuscendo sempre, sia attaccando sulle ali o per vie centrali , ad avere 3  giocatori a finalizzare. Tutti i metodi sono buoni, l’importante è che l’allenatore, per dimostrare che è il modulo a vincere o magari per una moda, non faccia giocare la squadra senza capire le caratteristiche dei propri giocatori costringendoli così a fare cose non adatte. Un vecchio allenatore (Guido Mazzetti) diceva due principi per lui fondamentali prima della gara ponendo due domande, la prima: ”Fa più male uno schiaffo o un cazzotto?” lo diceva allargando o stringendo le dita della mano paragonando la squadra alla mano stessa. La seconda : ”Se fate un errore in meno a testa quanti errori in meno sono in una gara?….Sembrano stupidaggini ma queste due frasi dette così racchiudevano tutto il senso di quello che doveva essere il nostro comportamento in campo.

 Gigi Cagni


Prima panchina…primi ritiri

8 novembre 2009

Nel ’87, conclusasi la mia esperienza alla Sambenedettese dopo 9 anni,  tornai a Brescia pensando di appendere gli scarpini al chiodo. In attesa di iniziare il corso di seconda categoria per diventare allenatore professionista, sentendomi bene fisicamente, chiesi al responsabile del settore giovanile del Brescia di potermi allenare con loro. Mi fu concesso e quindi andai in ritiro con la Primavera e rimasi aggregato al gruppo per qualche mese fino a che venni chiamato a novembre dall’Ospitaletto in C1, squadra che cercava un giocatore esperto in difesa per dare una mano ad un gruppo giovane. Ma questa è un’altra storia che forse un giorno racconterò. La premessa era per fare capire il motivo per cui l’anno dopo mi venne proposto di allenare la Primavera del Brescia da Umberto Cervati, figlio del Cavaliere Cervati, il Presidente che mi aveva permesso di iniziare a fare il professionista a 17 anni. Accettai volentieri ed iniziai la mia unica esperienza da tecnico di un settore giovanile. Quando chiesi informazioni sul come ci saremmo spostati per andare in ritiro mi fu risposto: “con le macchine dei genitori”…“CON LE MACCHINE DEI GENITORI? MA STATE SCHERZANDO!!ritiro

Era inconcepibile che i genitori accompagnassero i figli in ritiro, parliamo di ragazzi di 17-18 anni. Proibii che i parenti facessero visita nella prima settimana di ritiro e diedi il premesso solo per la domenica  pomeriggio dopo l’ allenamento. Quando tornammo ad allenarci in città all’antistadio, iniziò la processione dei genitori al campo, addirittura qualcuno con tutta la famiglia, per esempio il papà del portiere si metteva dietro la rete per dispensare consigli al proprio figlio. Non potevo accettare una cosa di questo tipo quindi impedii ai genitori di venire al campo e feci chiudere le porte. La cosa più divertente e gratificante fu l’applauso di gioia che mi fecero i ragazzi nello spogliatoio, non ne potevano più nemmeno loro. Quindi, cari GENITORI di ragazzi dei settori giovanili, se non riuscite a comprendere l’ importanza di lasciare liberi i ragazzi di esprimersi ed essere guidati solo dall’ allenatore, il  mio consiglio spassionato è: “STATE A CASA!”

Gigi Cagni

firma