30 anni ad inseguire un pallone

28 marzo 2011

In questo ultimo periodo ci sono molte persone, ventenni ma anche quarantenni,  che mi chiedono:  ”Come erano gli anni sessanta e settanta ?” Poi Marco mi ha chiesto di parlare del periodo della Sambenedettese.  Immediatamente mi sono passati nella mente 30 anni della mia vita.

Non preoccupatevi ,  non ve li racconterò tutti ma solo alcuni pezzi  importanti e significativi.  Non ho fatto mai un compito scolastico a casa nella mia vita, non ero tagliato per lo studio, e poi si è visto..(non fatelo, a quei tempi era possibile perché anche le condizioni erano diverse, e riuscire nella vita era comunque possibile perché c’era tutto da costruire e le opportunità erano molte) perché in prima ragioneria non avevo la sufficienza nemmeno in condotta. L’unica passione era il pallone. Sempre a giocare, nei vicoli del centro storico o all’oratorio.

A 14 anni sono andato a lavorare (da quell’età fino ai 17 ne ho cambiati di lavori per poi finire in fabbrica) ma, nello stesso periodo, ero stato preso nel settore giovanile del Brescia. Alla domenica  sveglia presto e a VEDERE la partita, perché c’era solo il DODICESIMO in panchina e quindi, o eri titolare o andavi in tribuna. Ero il più giovane della Juniores e quindi ho fatto un anno intero, solo ad allenarmi, e soffrire, ma  ad imparare tanto (gli allenatori erano MAESTRI e i nostri genitori non interferivano mai nelle loro decisioni).

Qualche pomeriggio, lavorando, non potevo partecipare agli allenamenti,  ed uno di questi maestri (Gigi  Messora) che credeva in me,  veniva appositamente alla sera nell’oratorio del mio quartiere ad allenarmi.

A 15 anni diventai titolare e feci tutta  la trafila fino alla primavera (nel frattempo i giocatori in lista passarono a 13, poi 14, fino ai 18 di oggi). Guadagnavo bene a fare l’operaio e la mia famiglia ne aveva bisogno, ma un giorno mi si prospettò di fare il professionista, la decisione comportava, però, il dover consegnare le dimissioni al lavoro. L’istinto e la passione vinsero sull’arrabbiatura di mia madre, che voleva il posto sicuro. Iniziai la mia carriera calcistica.

Giocare per  14 anni con la maglia della squadra della mia città è stata una delle emozioni più belle della mia vita. Se poi penso che, nei primi anni settanta ci fu un periodo in cui 7/11 erano bresciani e in campo si parlava dialetto, mi viene la pelle d’oca.

Ma le favole nella vita non esistono.

A 28 anni discopatia S1-L5, problemi alle gambe per infiammazione dello sciatico,il medico disse in società che ero finito (a quei tempi l’età media di durata dell’attività era 31 anni, un po’di più per chi giocava libero, e  le conoscenze terapeutiche erano limitate all’operazione chirurgica).  Il proprietario del cartellino era la società e quindi a novembre del 78 venni VENDUTO alla Sambenedettese, senza poter rifiutare anche perché un dirigente mi disse:  ”Se non vai ti faccio smettere”.

Avevo fatto i primi due anni da professionista firmando il contratto in bianco: era troppa la gioia di portare quella maglia. Avevo fatto gare con la febbre o con infiltrazioni anti dolorifiche perché “AVEVANO BISOGNO DI ME”.  Quello era il ringraziamento.

La rabbia e l’orgoglio mi fecero da sprone per pensare che avrei smentito la loro sfiducia e previsione.

San Benedetto del Tronto: non sapevo nemmeno dove fosse, pensavo di andare al SUD.  Lì ho poi vissuto altri 9 anni fra i più belli della mia vita. Lo stadio era vicino al mare, piccolo e raccolto, niente pista e le linee erano al limite delle misure regolamentari di distanza dai muri degli spalti. Il tifo calorosissimo e assordante.

Nelle partite importanti e, soprattutto, nel derby con l’Ascoli, pieno all’inverosimile.  Era un grosso vantaggio giocare in casa. Sono sempre stato un giocatore di grinta e agonismo, lì ho portato all’ennesima potenza la mia carica e, dopo i primi anni, sono diventato il capitano e l’emblema di quella squadra fino all’87 quando tornai a casa. I primi due anni non sono stati facilissimi perché nel primo ci siamo salvati alla fine e nel secondo siamo retrocessi. Avrebbe potuto essere la fine di tutto e invece fu l’inizio, per me, di una nuova vita.

A 30 anni in C1 a San Benedetto non aveva senso. Come ho detto all’inizio, giocando terzino sx, non avrei avuto ancora molti anni di carriera davanti a me e quindi la C1 mi conveniva farla vicino a casa e prepararmi il futuro. Come dico sempre” la fortuna passa per tutti”, la bravura sta nell’essere pronti a coglierla. Dico questo perché quando andai in sede per ritirare gli assegni (come sempre posdatati ottobre-novembre-dicembre) degli ultimi tre mesi di stipendio, ebbi la FORTUNA di avere un colloquio con Nedo Sonetti, futuro allenatore della della Samb. Mi chiamò nel suo ufficio e mi propose di rimanere perché riteneva fossi l’uomo giusto, per esperienza e carisma, come guida di una squadra che doveva vincere il campionato e tornare in B immediatamente.  Usò tutti i mezzi di persuasione ma senza risultato finchè, mentre stavo per  uscire dall’ufficio, disse la frase più geniale e convincente si potesse dire in quel momento: “E se giocassi LIBERO?”. Rimasi fulminato, mi si accese la lampadina e mi passarono davanti tutti gli anni futuri in quel ruolo. Mi fermai, mi girai e dissi “PARLIAMONE”. Iniziò per me una nuova carriera calcistica piena di soddisfazioni che mi forgiò, soprattutto, come uomo. Iniziò, anche, la mia nuova  mansione calcistica e cioè quella di ALLENATORE in campo.  Sette  anni splendidi, pieni di soddisfazioni (vincemmo subito il campionato di C1 ,tornammo in B e ci rimanemmo finché non venni via nell’87)ed esperienze da leader che mi sono servite per intraprendere, con più sicurezza ,quello che sarebbe poi diventato il mio lavoro di allenatore. Oggi capisco anche il perché ogni Mister che veniva alla Sambenedettese , pretendeva la mia riconferma, anche quando avevo 36 anni. Troppo importante avere il leader e l’allenatore in campo. Oltre a quello ho fatto LA CHIOCCIA  a decine di giovani giocatori. Il loro complimento più grande è stato, rivisti in seguito a carriere brillanti,che li avevo aiutati a crescere più come UOMINI che calciatori. L’ambiente era ideale perché molto familiare e ristretto, ma con pressioni costanti e grande passione da parte dei tifosi. L’importante era dimostrare il proprio attaccamento alla squadra e alla maglia, si doveva uscire dal campo avendo dato tutto. Se avevi fatto questo nessuno ti rimproverava niente. Niente personalismi, la maglia e i tifosi andavano rispettati con il tuo comportamento in campo e cioè carica agonistica e grinta per i colori ROSSO-BLU. Questi principi varrebbero ancora oggi ma il SISTEMA è così cambiato che è molto difficile trovare sia i leaders che le BANDIERE. Una cosa è certa, io mi reputo fortunato per avere vissuto in un periodo così pieno di avvenimenti ed esperienze che mi hanno fatto crescere giorno dopo giorno senza rimpianti e, soprattutto, senza mai essermi mai ANNOIATO.

Gigi Cagni


MOMENTI INDIMENTICABILI

5 marzo 2011

Prendo lo spunto da quello che mi ha scritto Christian sul blog per raccontare una delle mie più belle giornate da allenatore.
Ero stato ingaggiato dal Piacenza in serie C1 nel 1990, dopo avere fatto un anno in C2 nella Centese. Avrei avuto la possibilità di andare in B sia con il Monza che con il Como ma, NON AVENDO IL PATENTINO DI PRIMA CATEGORIA, mi sembrò giusto e corretto andare nella categoria giusta per la mia qualifica. L’altra cosa importantissima fu che venni contattato dal direttore sportivo Giampiero Marchetti, ex giocatore di Atalanta e Juve, bresciano come me, con cui ebbi immediatamente la sensazione che si parlasse lo stesso linguaggio calcistico. La cosa venne avvalorata quando, in seguito, conobbi sia il vice presidente Rag. Quartini che il presidente ing.Garilli. Uomini di una generazione fatta di lavoro e onestà intellettuale, con dei principi basilari per permettere all’allenatore di dare l meglio di sé. Era chiaro che volevano VINCERE, ma sapevano anche che perché accadesse dovevano darmi tutti gli strumenti per farlo. Carta bianca, prima di tutto, ma anche la responsabilità del dovere raggiungere l’obiettivo con i mezzi da me scelti e il tempo GIUSTO per poterlo raggiungere. Quindi iniziai dalla C1 con un organico molto forte (Occhipinti, Braghin, Cappellini, Cornacchini, Piovani ecc… alcuni dei più forti ma gli altri erano allo stesso livello).

Le promozioni erano solo due e il campionato era molto difficile. Puntai, per prima cosa, sull’aspetto fisico, sempre per il principio che, per me, se un giocatore è nella migliore condizione psico-fisica, rende al massimo in quella tecnico tattica.
Quindi CULO MOSTRUOSO in ritiro. 4 settimane in Val Seriana, erano distrutti, ma io soddisfatto perché avevo capito di avere un gruppo che sapeva sopportare grossi sacrifici (alla terza settimana, sentiti gli umori, dissi che chi voleva poteva andare a casa per 2 giorni o fare venire le mogli o le fidanzate a trovarli in ritiro. Dopo una breve riunione venne il capitano e mi informò che TUTTI volevano rimanere perché credevano a quello che gli avevo detto e cioè che da quel sacrificio si potevano costruire le vittorie. Da lì capii di avere un gruppo vincente).
Impostai il campionato sulla fase difensiva perché c’è un principio che vale tuttora, e varrà sempre, e cioè se devi vincere a tutti i costi e hai appena iniziato la tua avventura in quel club, devi dare delle certezze di RISULTATO per far accrescere ai giocatori la fiducia nei propri mezzi, ed è statistico che vince chi subisce meno gol. Oltretutto avevo visto di possedere una squadra con delle qualità offensive che mi davano la serenità e che prima o dopo il gol noi lo avremmo fatto. Così fu e quindi, l’anno dopo in B, iniziai la mia costruzione non soltanto del risultato, anche se era determinante la salvezza mai raggiunta dal Piacenza negli anni precedenti, ma anche di dare il gioco che, secondo me, poteva dare risultato e piacere per noi e per chi ci seguiva. Non fu facile, ci salvammo alla fine per le qualità della squadra sia tecniche che professionali e morali (non è mai l’allenatore che vince ma i giocatori, l’allenatore deve essere bravo a farli rendere al massimo).
E da qui iniziò il GODIMENTO. Quasi la stessa squadra per il terzo anno, integrandola con elementi di sicuro affidamento sia tecnico che psico-fisico per le mie esigenze, per il mio AMATO 4-3-3. Ero ossessivo in ogni allenamento, pretendevo sempre il massimo sotto tutti gli aspetti, ero passionale perché LORO mi accendevano questa passione. Gli schemi che vi ho illustrato nel blog erano la base del nostro gioco sia difensivo che offensivo (ho sempre avuto il capo cannoniere del campionato, anche se mi avevano messo l’etichetta di difensivista) e si realizzava sempre meglio perché, con il loro aiuto, veniva modificato in ogni allenamento o partita.
Nelle gare ufficiali ero sempre in piedi e non sempre avevo espressioni da Lord Inglese, ma mi conoscevano e sopportavano perché sapevano che qualsiasi cosa dicessi era per il bene della squadra. Ero ossessivo per il gioco offensivo, li avevo convinti, con i fatti naturalmente, che quegli schemi erano efficaci sempre e contro chiunque. In tutti gli allenamenti c’erano sempre partitine a 1 tocco o tre tocchi massimo.

Volevo la pressione costante sull’avversario e cross, cross e ancora cross, costruiti sulla base dei nostri schemi (dico nostri perché le varianti si erano aggiunte volta per volta con il loro apporto, e poi provate e riprovate finchè non eravamo certi che fossero producenti ).
Credevano in me e io in loro.
Veniamo ora al fatto di cui ho accennato all’inizio e che mi ha dato lo spunto per raccontarvi un po’ delle mie esperienze all’inizio della mia avventura calcistica.
Cesena – Piacenza, campo splendido, clima giusto, squadra avversaria forte ma che prediligeva il gioco. Iniziata la partita ho capito subito che sarebbe stata la giornata ideale. Lo avevo già intuito nello spogliatoio (questa è una sensazione che sento molte volte e che spiego con una frase significativa ”SENTO I MUSCOLI” è proprio una sensazione fisica di TONICITA’ che avverto nello spogliatoio quando rientrano dal riscaldamento pregara )
Non ho parlato per tutta la partita, giocavano a memoria, gli schemi venivano come se fossimo in allenamento senza avversario. Nelle due fasi erano perfetti sia tatticamente che tecnicamente, corti e uniti sempre, mai una sbavatura e gli errori non si vedevano perché c’era immediatamente un compagno che sopperiva e non li rendeva evidenti.

Unico problema fu che De Vitis (uno dei più forti centravanti che abbia allenato) non inquadrava la porta. Vi posso dire che la cosa non mi interessava, giocavano troppo bene e il risultato era relativo in quel momento, GODEVO TROPPO, seconde me anche se non avessimo vinto sapevo che quella sarebbe stata la partita che mi avrebbe dato ancora più certezze per quello che era il mio credo calcistico. Per la cronaca vincemmo 1 a 0 con gol di Papais, con un tiro da 25m a pochi minuti dalla fine. Vi posso assicurare che una gara di quel tipo ti può sollevare da ogni delusione che questo lavoro ti può dare.

Ancora oggi, quando rivedo qualche giocatore di quei tempi, lo ringrazio per avermi permesso di esprimere le mie convinzioni al meglio. Non si può non amare questo mestiere.

Gigi Cagni


Nella tana del Chelsea

1 marzo 2011
E’ proprio un periodo strano, ovunque vada, in giro per l’Italia,sono apprezzato nell’ambito calcistico sia come tecnico che come uomo da chi viene a contatto con me,siano essi addetti ai lavori o appassionati, eppure non riesco a trovare una collocazione.
Comincio a pormi la domanda: “Dove ho sbagliato? 20 anni di carriera, 3 campionati vinti, salvezze difficilissime in A,Coppa Uefa con L’Empoli, tutto questo non è servito a niente?
Per fortuna il mio spirito combattivo mi fa poi rasserenare e accettare quello che è il momento particolare di tutti gli ambienti lavorativi in Italia.
La meritocrazia ritornerà in tutti gli ambiti perché senza quella non si può crescere.
C’è un unico mezzo per reagire, ed è CONTINUARE AD ACCRESCERE LE PROPRIE ESPERIENZE E CONOSCENZE. Per questo motivo, 3 settimane fa, sono andato a Londra a trovare Ancelotti e a vedere i suoi allenamenti.
Innanzitutto devi muoverti con lo spirito giusto
e pensare che vai in una situazione organizzativa e ambientale totalmente diversa da quella che si trova nella maggior parte delle nostre società, purtroppo.
Sono arrivato al centro sportivo del Chelsea con la metropolitana ed il treno, dal centro di Londra in un’ora (per dire che le lunghe
distanze si coprono in breve tempo quando le comunicazioni ed i servizi funzionano).
Mi sono trovato in uno splendido ambiente, nel silenzio ovattato della campagna londinese, in un centro sportivo composto da due grandi palazzine,distanti tra loro circa 300m; in una ci sono tutte le strutture necessarie alla prima squadra e nell’altra quelle del settore giovanile (compresi gli alloggi per i ragazzi che vengono da fuori). Di fronte a questi edifici ci sono tutti i campi di allenamento. La prima cosa che mi ha colpito è che non c’erano né tifosi né,tantomeno,giornalisti.
Carlo mi ha poi detto che non è come da noi, lì non ci sono quotidiani sportivi e nemmeno
trasmissioni televisive che trattano argomenti tecniciè più facile che i media……….cerchino gossip sui calciatori.
Comunque la cosa che mi interessava di più era vedere l’ organizzazione di una società all’avanguardia nel panorama del calcio Europeo e, probabilmente, mondiale.
Siamo saliti al secondo piano dove ci sono tutti gli uffici che fanno parte dell’organizzazione tecnica del suo staff. Con lui collaborano circa 10 persone comprendenti tecnici che, in uno degli uffici,con l’ausilio di computer,preparano tutti i dvd che serviranno alle esigenze di Carlo.
In un altro ufficio dotato anch’ esso di computer, ci sono altri collaboratori che elaborano tutti i dati di ogni singolo giocatore durante gli allenamenti e le partite, attraverso collegamenti Gps indossati dai giocatori stessi.
In fondo al corridoio c’è l’ufficio del BOSS e cioè quello di Carlo, con scrivania, salottino per le riunioni e, naturalmente,televisore con tutti gli strumenti per visionare i dettagli.
Fa parte del suo staff anche il Dott. De Michelis, psicologo di fama mondiale che ha elaborato uno strumento per misurare il grado di sopportazione dello stress.(avrei dovuto farlo  io, probabilmente avrei fatto saltare la macchina).
Ad ogni fine allenamento Ancelotti e tutti i suoi collaboratori si riuniscono e analizzano tutti i dati dell’allenamento precedente, ne discutono, e organizzano quello del giorno dopo.
Al piano terreno ci sono: la palestra,la piscina,una vasca con tapis roulant (attrezzature che posseggono loro e poche altre squadre in Europa)per il recupero infortunati,
la sala massaggi (immensa) con uno staff composto da un medico e 4 massaggiatori. Ed infine, gli spogliatoi che danno direttamente sui campi di allenamento.
Durante Quella settimana avevano tre gare e quindi gli allenamenti erano abbastanza blandi, comprendenti possesso palla e partitine a tema, tutto comunque, fatto a buone intensità e sempre con lo spirito giusto.
Quel periodo mi ha riconciliato con la passione e fatto ritrovare l’entusiasmo per il mio lavoro. Tornato in Italia per l’ ennesima volta mi sono chiesto perché qui non si possa arrivare ad avere stadi e strutture adeguate come in Inghilterra.
Potenzialmente non siamo secondi a nessuno, ma ultimamente abbiamo perso molto in cultura sportiva e organizzazione. Io mi sento un giovane studente in cerca di nuove esperienze nel campo che amo, non so dove mi porterà la voglia di crescere e di imparare, ma ho la consapevolezza che questo mio spirito mi abbia reso ciò che sono e non vedo l’ ora di mettere tutto questo ancora a disposizione di giocatori intenzionati a migliorarsi giorno dopo giorno.

 

Gigi Cagni